Intervista al sole 24 ore – Alessandro Maestri

11 Febbraio 2009
INTERVISTA IL SOLE 24 ORE

Fonte Il Sole 24 Ore

«Il sito della Major League mi indica tra le grandi promesse del baseball a stelle e strisce? Meglio non leggerli, quegli articoli: fai presto a finirci dentro e altrettanto presto ne esci. Devo lavorare duro e tenere i piedi per terra». Predica saggezza, Alessandro Maestri.

Ma quel che è certo è che il 23enne lanciatore romagnolo di Torre Pedrera è l’azzurro più vicino a coronare il grande sogno di giocare nella Major League di baseball. Dopo aver firmato un contratto professionistico con i Chicago Cubs nel 2005, Maestri sta facendo la trafila di tutte le squadre satellite, e quest’anno ha giocato («purtroppo solo un mese – precisa – a causa di un infortunio alla spalla») nei Tennessee Smookies ( livello “AA”, paragonabile alla Serie B del nostro calcio, n.d.r.), primo italiano nel terzo livello più alto del campionato U.S.A.

«Ho cominciato a giocare a 6 anni, grazie a mio fratello maggiore che mi ha trasmesso la passione per il baseball», spiega Maestri. «Poi è stato un crescendo: il San Marino Baseball, la Nazionale, le competizioni in azzurro e le attenzioni degli scout dei professionisti. Quando mi hanno chiamato i Cubs c’ho messo un istante per fare la valigia e volare Oltreoceano…».

Un italiano che prova a entrare nell’Olimpo dello sport americano per eccellenza. Almeno all’inizio deve essere stata dura…
«E lo è ancora! E i primi tempi, oltre alle difficoltà sul campo, c’erano pregiudizi e luoghi comuni da superare. Poi, con la calma e il lavoro, mi sono conquistato spazi e fiducia. La vera differenza rispetto al baseball europeo è l’intensità e il ritmo di gioco. Senza contare i calendari, molto più fitti di quelli nel Vecchio Continente. La concorrenza poi è spietata, soprattutto nelle leghe minori, dove ci sono molti buoni giocatori che lottano per provare a realizzare il loro sogno».

In questi giorni anche il neo-presidente Obama (tifoso dell’altra Chicago, quella che sostiene i White Sox) si è occupato di baseball: «È deprimente», ha detto, commentando le parole della stella dei New York Yankees Alex Rodriguez, che ha ammesso l’uso di sostanze dopanti tra il 2001 e il 2003. Che impressione ti ha fatto questo caso? Ne parlate, tra voi giocatori, del fenomeno doping nel baseball?
«Purtroppo quello di Rodriguez non è un caso isolato. In passato c’è stato anche quello di Barry Bonds. Sono campioni che rischiano con la loro salute, ma rischiano anche di perdere credibilità e prestigio agli occhi dei tifosi. La sensibilità sul tema da parte dell’opinione pubblica americana è aumentata, in questi anni. Eppoi, dal punto di vista di noi giocatori, dà molto fastidio sapere che un tuo idolo, o anche un tuo rivale, scende in campo ingannando fans, compagni e avversari».

Nell’America in crisi economica il baseball – appena conclusa la stagione col successo di Philadelfia – si è lanciato in una campagna acquisti da milioni di dollari. Come ha reagito la gente vedendo i propri campioni firmare assegni a nove zeri, mentre centinaia di migliaia di persone stanno perdendo il lavoro?
«Non ci sono state reazioni particolari. Il baseball è il “national pass-time”, il passatempo nazionale. Ogni famiglia americana ha in casa o nel bagagliaio della macchina guantone, pallina e mazza, pronte all’uso nei parchi cittadini, nel tempo libero, durante i picnic nel fine settimana. Pensa che nelle serie minori arrivano in media 15-20mila spettatori a serata per vedere le nostre partite. Al baseball, quindi, tutto è permesso, anche gli eccessi di quei mega-contratti di cui parli. Ma è così per tutto lo sport-system americano».

E i luoghi in cui il baseball si gioca diventano immediatamente luoghi di culto. Basti pensare alle celebrazioni per l’abbattimento del vecchio Yankee Stadium a New York. Hai fatto in tempo a visitarlo un ultima volta?
«In realtà ci ho giocato quando avevo 14 anni, durante un torneo a inviti negli Stati Uniti, con la mia squadra di Rimini. Fantastico! Mi sono sentito piccolo piccolo, in mezzo al diamante (come è abitualmente chiamato il campo da baseball, n.d.r) più famoso al mondo. E ho visto anche lo Shea Stadium, quello dei Mets. Che posti ragazzi! Da brividi! Il mio sogno? Che domande! Un fuoricampo o uno strike-out nel nuovo Yankee Stadium, naturalmente!».