Il cantante: inventai il nome «Le Storie Tese» a Ingegneria. L’ultima sua follia: un libro sul baseball: «Uno sport che non si fila nessuno»
Si è presentato sul palco di Sanremo travestito da prete, da astronauta, da nano. Al concertone del primo maggio, ha cantato senza preavviso i nomi dei politici sospettati di corruzione: era prima di Mani Pulite e la Rai sovrappose alla diretta un’intervista a Ricky Gianco. Ha girato un film con Rocco Siffredi. Ha messo in stand by le Storie Tese e il loro rock demenziale e ha portato in scena un’opera lirica.
L’ultima follia di Elio, adesso, è un libro sul baseball: «Uno sport che non si fila nessuno e perciò una di quelle cose che piacciono a me, improbabili, con punte surreali». S’intitola Mi chiamavano Maesutori, è edito da Baldini+Castoldi, è uscito il 2 dicembre e racconta la storia del suo coautore Alessandro Maestri, unico italiano ad aver giocato nel campionato giapponese: «Fu preso in America o lo mandarono via senza che giocasse una sola partita in Major League» racconta Elio, «ma poi ha giocato in Australia, in Corea e nella nostra Nazionale. La sua è la storia di una sconfitta che si trasforma in una vittoria».
Come arrivano per lei guantoni e mazza?
«A metà anni 70, abitavo alla periferia di Milano, ero ragazzo, stavo fuori casa tutto il giorno a giocare a pallone. Poi, un giorno, sono sceso e stavano facendo baseball. Fu una fase e finì presto. Quindi, nel 1988, Faso, il bassista delle Storie Tese, che odiava il calcio, propose di scegliere uno sport da fare con tutti gli amici. Abbiamo iniziato al Parco Lambro quando era pieno di tossicodipendenti. Coi guantoni da sci invece del guanto vero, coi bastoni al posto delle mazze. Poi, sono arrivati gli attrezzi giusti e ci siamo detti “andiamo in un campo”, ma per farlo dovevamo iscriverci al campionato e siamo stati obbligati a fare il campionato. Abbiamo perso il primo incontro 44 a 2. Abbiamo trovato un allenatore e, insomma, è nata la Ares, arrivata pure in A2, di cui sono ancora vicepresidente».
In cosa il baseball è una metafora della vita?
«Difficilmente vedi rivalità in campo: le risse non sono mai vere risse. È rimasto lo spirito di uno sport nato sui prati dei barbecue americani, come intrattenimento fra una salsiccia e l’altra. Gli allenatori fanno le interviste a bordo campo mentre si gioca. È uno sport che mi somiglia perché non si prende mai sul serio».
Lei è lanciatore, battitore, o ricevitore?
«Sono una schiappa, quindi: esterno, dove stanno i meno capaci. In una band, sarei quello che suona l’accompagnamento e non si vede, però si sente ed è importante».
Non era quello il suo ruolo dentro Elio e le Storie Tese.
«No, ma in realtà, da piccolo, sognavo di suonare senza essere visto».
I travestimenti servono a non essere visto?
«Sì, anche la scelta del nome finto. All’anagrafe, sarei Stefano Belisari. Però, ero a un bivio: o fare qualcosa nella vita o restare dietro le quinte. Ho scelto la seconda con grandissimo sforzo e ci ho preso gusto».
Primo travestimento?
«Da bambino, obbligato da mio padre a una gara canora in crociera. Sapevo tutte le canzoni dello Zecchino d’oro. Pure lì arrivai secondo».
Come al primo Sanremo, nel 1996, dove però si parlò di brogli e forse era primo.
«C’era stata un’indagine sulla classifica. Ci interrogarono e un investigatore mi confidò: avete vinto voi, ma non si può dire. Dopo anni, vedo Giorgia e mi fa: l’hanno detto anche a me».
La «Terra dei cachi» fu salutata come una geniale denuncia dei mali dell’Italia.
«Noi non volevamo andarci, non c’entravamo col festival, ma le pressioni erano tante, Pippo Baudo, i discografici… Ci siamo detti: andiamoci come in gita e facciamo una porcheria, come piace a noi. Nella testa di noi pazzi, quella era l’imitazione fatta male di una canzone impegnata, che però tanto impegnata non può essere, trattandosi del festival delle canzonette. Scriviamo una marcetta, per noi il peggio possibile, e un elenco pedante di luoghi comuni sull’Italia, con giochi di parole davvero stupidi. Però la prima sera, dopo l’intro su “parcheggi abusivi… villette abusive”, quando parte “Italia sì Italia no”, le signore in prima fila iniziano a battere il tempo e io penso: ahia, qualcosa è andato storto».
Lei che infanzia ha avuto?
«Mamma era casalinga, papà lavorava con gli elettrodomestici. Io sentivo sempre i 45 giri. Per fortuna, in casa, c’erano bei dischi, i Beatles, Enzo Jannacci, che aveva fatto il Liceo Berchet con mio padre, il quale mi raccontava sempre del compagno diventato grande cantante».
Fu quell’esempio a ispirarla?
«Credo di sì, col senno di poi».
Anche Jannacci era maestro di nonsense.
«Era un genio e non ha avuto nessuno a cui ispirarsi. Dal 15 dicembre, faccio un tour dedicato a lui, Ci vuole orecchio, inizio a Forlì».
L’ha mai conosciuto?
«Nell’ospedale dove venni operato di appendicite a 12 anni. Faceva il medico lì, mi visitò, ma dormivo».
L’incontro con la musica?
«In quarta elementare, ci chiesero chi si volesse iscrivere alla Scuola Civica, io sono saltato in piedi: avevo proprio voglia. Mi assegnarono il flauto, mi sono diplomato. Avrei preferito il piano, ma alla fine il flauto è meno ingombrante: quelli col contrabbasso o le tastiere mi guardano sempre con invidia».
Al liceo, fonda Elio e le Storie Tese.
«Mi estromisero da una band e mi arrabbiai così tanto che mi dissi: faccio il mio gruppo».
Il nome come nasce?
«Arriva dopo. Lo inventai con un compagno di Ingegneria, cercando un nome orrendo».
Perché una laurea in Ingegneria?
«Gli ingegneri sono menti aperte, hanno fatto tutto ciò che vede attorno a noi. E io non avevo la percezione che la musica potesse essere altro che un modo per stare con gli amici, sfogare le mie attitudini. Mi sono licenziato da impiegato della rete interbancaria solo col secondo disco».
Com’era andare in giro con le Storie Tese in quei primi tempi?
«Ci inventavamo finte risse sul palco e la gente ci credeva subito. Una volta, a Belluno, la rissa si trasformò in un riso convulso da cui non uscivamo più, piegati per terra, abbracciati uno sull’altro, tutti che ridevano. C’era ancora Feiez: la mia storia nella musica ha ricordi belli e brutti».
Feiez morì sul palco, il 23 dicembre 1998.
«Una persona cara che muore davanti a te è un grandissimo choc».
Come cambiò la sua idea della morte?
«Non la cambiò: una delle mie fortune è che, dai 15 o 16 anni, ho ben presente che la morte esiste e questo è il motivo per cui ho fatto tante cose che sembrano strane».
Che le è successo a 15 anni?
«Credo di essere stato una delle prime vittime di attacchi di panico quando nessuno sapeva cosa fossero. Pensavano che avessi mal di cuore o altri mali gravi. Mi sono detto: o muoio o vivo in modo degno. Per fortuna, non sono morto».
Giorgia ha raccontato che vi trovò in uno studio di registrazione nel mezzo di una sparatoria con pistole giocattolo. Eravate sempre così?
«Non è che eravamo così: lo siamo ancora».
Non vi siete sciolti nel 2018?
«Non ci siamo sciolti, ci vediamo sempre, la differenza è che non facciamo più live o dischi, fino a nuovo ordine. Adesso abbiamo ripreso Cordialmente su Radio Deejay, con Linus. Non volevamo che il gruppo diventasse un lavoro impiegatizio in cui devi creare solo perché bisogna campare. Poi, chiaro: l’arte si lega anche al guadagno. Anzi, ci terrei se mi facesse ricordare che, in questo Paese, moltissimi campano di cultura, che è anche tv, musica, cinema, comicità. Ci tengo perché non ho mai digerito quel ministro che disse “di cultura non si mangia”».
Il primo album aveva un titolo impronunciabile.
«Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu. Erano parolacce in cingalese. Avevamo un successo incredibile ovunque suonassimo, ma per dieci anni nessuno aveva voluto farci fare un disco. Anche quello lo rifiutarono tutti, anche insultandoci, tranne la Cbs».
C’era dentro anche una canzone sul pornoattore John Holmes.
«L’appassionato di porno è Rocco Tanica. Sul tema, è un’enciclopedia. Attraverso di lui, per un po’, ci siamo tutti appassionati alle trame hard».
La trama non è l’elemento forte del porno.
«Infatti, ma avendo sempre obiettivi futili volevamo trattare il genere come se fosse cinema serio. Forti del successo della Terra dei Cachi, invece di monetizzare come tutti, noi cialtroni che non avevamo un disco pronto abbiamo fatto pure un porno con Rocco Siffredi. Ponemmo come condizione che non ci saremmo tolti neanche una calza. La scena più bella non è stata ripresa: ce la stavamo svignando alla chetichella da un’orgia; Rocco, che stava lavorando con un’attrice, la solleva, l’appoggia per terra, e viene a salutarci. Nudo. Perché è un gentiluomo».
Come vi venne in mente di fare i nomi dei politici in odore di corruzione al Concertone 1991?
«Fa parte della voglia di fare cose mai osate. I colleghi già vivevano quel palco come una promozione del disco, noi pensavamo che andasse fatto altro. Alla prova generale, davanti al funzionario che vigilava, facemmo una canzone normale, ma in diretta, attaccammo un rap coi nomi dei politici indagati dalle commissioni parlamentari d’inchiesta e, guarda caso, archiviati. Ci oscurarono mentre i tecnici ci trascinavano via dal palco».
Della sua vita privata si sa poco, solo che ha una compagna e due gemelli di 12 anni.
«Ma non ne parlo. Se no, in un attimo, si arriva all’autismo di mio figlio, che non possono essere due righe in un’intervista. Su questo, voglio fare qualcosa che porti effetti in un campo dove c’è da costruire tutto».
Ha fatto «Mai dire gol», «Parla con me», «X Factor», da gennaio sarà giudice a «Italia’s Got Talent». Cos’è la tv per lei?
«Divertimento ed esercizio di curiosità».
Quante cure richiedono le sue celebri sopracciglia folte?
«Tante. Sono assicurate per un milione».
Ha mai pensato al suo epitaffio?
«Certo: cretino e fiero di esserlo».