La nostra rassegna stampa, con gli estratti degli articoli più interessanti: Intervista-confessione di Stefano Belisari (questo il suo vero nome), che a 60 anni va in libreria con un libro sul baseball. Racconta com’è nato il nome demenziale della sua band e dedica un tour a Enzo Jannacci, compagno di scuola del padre al liceo Berchet di Milano: «Era un genio».
L’articolo di Tv Zoom
Elio: «Jannacci mi visitò in clinica e ho girato un film con Siffredi. La band? Non si è mai sciolta»
Corriere della sera, pagina 27, di Candida Morvillo.
Si è presentato sul palco di Sanremo travestito da prete, da astronauta, da nano. Al concertone del Primo maggio, ha cantato senza preavviso i nomi dei politici sospettati di corruzione: era prima di Mani Pulite e la Rai sovrappose alla diretta un’intervista a Ricky Gianco. Ha girato un film con Rocco Siffredi. Ha messo in stand by le Storie Tese e il loro rock demenziale e ha portato in scena un’opera lirica. L’ultima follia di Elio, adesso, è un libro sul baseball: «Uno sport che non si fila nessuno e perciò una di quelle cose che piacciono a me, improbabili, con punte surreali».
S’intitola Lo chiamavano Maesutori, è edito da Baldini+Castoldi, è uscito il 2 dicembre e racconta la storia del suo coautore Alessandro Maestri, unico italiano ad aver giocato nel campionato giapponese: «Fu preso in America e lo mandarono via senza che giocasse una sola partita in Premier League» racconta Elio, «ma poi ha giocato in Australia, in Corea e nella nostra Nazionale. La sua è la storia di una sconfitta che si trasforma in una vittoria».
Come arrivano per lei guantoni e mazza?
«A metà anni ‘70, abitavo alla periferia di Milano, ero ragazzo, stavo fuori casa tutto il giorno a giocare a pallone. Poi, un giorno, sono sceso e stavano facendo baseball. Fu una fase e finì presto. Quindi, nel 1988, Faso, il bassista delle Storie Tese, che odiava il calcio, propose di scegliere uno sport da fare con tutti gli amici. Abbiamo iniziato al Parco Lambro quando era pieno di tossicodipendenti. Coi guantoni da sci invece del guanto vero, coi bastoni al posto delle mazze. Poi, sono arrivati gli attrezzi giusti e ci siamo detti “andiamo in un campo”, ma per farlo dovevamo iscriverci al campionato e siamo stati obbligati a fare il campionato. Abbiamo perso il primo incontro 44 a 2. Abbiamo trovato un allenatore e, insomma, è nata la Ares, arrivata pure in A2, di cui sono ancora vicepresidente».
In cosa il baseball è una metafora della vita?
«Difficilmente vedi rivalità in campo: le risse non sono mai vere risse. È rimasto lo spirito di uno sport nato sui prati dei barbecue americani, come intrattenimento fra una salsiccia e l’altra. Gli allenatori fanno le interviste a bordo campo mentre si gioca. È uno sport che mi somiglia perché non si prende mai sul serio».
Lei è lanciatore, battitore, o ricevitore?
«Sono una schiappa, quindi: esterno, dove stanno i meno capaci. In una band, sarei quello che suona l’accompagnamento e non si vede, però si sente ed è importante».
Non era quello il suo ruolo dentro Ello e le Storie Tese.
«No, ma in realtà, da piccolo, sognavo di suonare senza essere visto».
I travestimenti servono a non essere visto?
«Sì, anche la scelta del nome finto. All’anagrafe, sarei Stefano Belisari. Però, ero a un bivio: o fare qualcosa nella vita o restare dietro le quinte. Ho scelto la seconda con grandissimo sforzo e ci ho preso gusto».
Primo travestimento?
«Da bambino, obbligato da mio padre a una gara canora in crociera. Sapevo tutte le canzoni dello Zecchino d’oro. Pure lì arrivai secondo».
Come al primo Sanremo, nel 1996, dove però si parlò di brogli e forse era primo.
«C’era stata un’indagine sulla classifica. Ci interrogarono e un investigatore mi confidò: avete vinto voi, ma non si può dire. Dopo anni, vedo Giorgia e mi fa: l’hanno detto anche a me».
La Terra dei cachi fu salutata come una geniale denuncia dei mali dell’Italia.
«Noi non volevamo andarci, non c’entravamo col festival, ma le pressioni erano tante, Pippo Baudo, i discografici… Ci siamo detti: andiamoci come in gita e facciamo una porcheria, come piace a noi. Nella testa di noi pazzi, quella era l’imitazione fatta male di una canzone impegnata, che però tanto impegnata non può essere, trattandosi del festival delle canzonette. Scriviamo una marcetta, per noi il peggio possibile, e un elenco pedante di luoghi comuni sull’Italia, con giochi di parole davvero stupidi. Però la prima sera, dopo l’intro su “parcheggi abusivi… villette abusive”, quando parte “Italia sì Italia no”, le signore in prima fila iniziano a battere il tempo e io penso: ahia, qualcosa è andato storto».
Lei che infanzia ha avuto?
«Mamma era casalinga, papà lavorava con gli elettrodomestici. io sentivo sempre i 45 giri. Per fortuna, in casa, c’erano bei dischi, i Beatles, Enzo Jannacci, che aveva fatto il Liceo Berchet con mio padre, il quale mi raccontava sempre del compagno diventato grande cantante».
Fu quell’esempio a ispirarla?
«Credo di sì, col senno di poi».
Anche Jannacci era maestro di nonsense.
«Era un genio e non ha avuto nessuno a cui ispirarsi. Dal 15 dicembre, faccio un tour dedicato a lui, Ci vuole orecchio, inizio a Forlì».
L’ha mai conosciuto?
«Nell’ospedale dove venni operato di appendicite a 12 anni. Faceva il medico lì, mi visitò, ma dormivo».