L’articolo di Carlo Ravegnani sul Corriere dello Sport
L’avventura americana di Alessandro Ercolani è solo l’ultima di una fortunata “mandata” di talenti della nostra zona. Sedici anni fa toccò ad Alessandro Maestri, passato in fretta dalla serie C dei Falcons Torre Pedrera, dove ha mosso i primi passi (con lo scudetto Ragazzi del ‘97) all’A1 a San Marino (con la finale scudetto nel 2005).
Alessandro Maestri, e poi cosa è successo?
«Era il 2005 e all’epoca avevo 20 anni: all’Accademia di Tirrenia uno dei coach era Bill Holmberg scout dei Chicago Cubs. Mi disse che se a fine anno non avessi firmato con nessuna franchigia, ci avrebbe pensato lui. Ha mantenuto la parola e ho firmato con i Cubs».
Quanto durava il contratto?
«Sette anni, ma volendo potevano mandarmi a casa anche dopo un mese. La differenza è il bonus economico che spetta al giocatore al momento della firma».
Il primo contatto con i Cubs?
«Nel 2006 ci fu la prima edizione del ‘Classic’, ero in Florida con la nazionale italiana poi andai in Arizona per lo spring training. Avevo una gran voglia di confrontarmi con un livello altissimo, quasi sconosciuto da noi. E poi ero orgoglioso di rappresentare l’Italia del baseball negli Stati Uniti, una cosa importante per tutto il movimento. Adesso è normale che un bravo giocatore europeo venga scelto da una franchigia di Major, i miei erano altri tempi. Andare in America era un salto nel buio: qualcuno c’era già stato, ma una cosa è sentirla raccontare, un’altra è viverla direttamente».
Problemi di ambientamento?
«All’inizio sì, non conoscevo nessuno. Sveglia di primissima mattina, subito la colazione, veloce, perché poi scattava la lotta per salire sul pullmino che portava al campo. Era un mezzo da nove posti, eravamo in 30-40 ad aspettarlo, la competizione iniziava li, i latini in particolare erano scatenati, passavano dovunque, pure sotto le gambe. I primi che arrivavano aspettavano un’oretta al campo. Ma funzionava così».
C’è stato un po’ di nonnismo?
«Sempre in modo simpatico. Come ogni italiano all’estero mi chiamavano ‘spaghetti’, ‘mandolino’ e ‘Italian Stallion’ alla Rocky. È normale, l’hanno fatto anche con Alex Liddi che ha avuto la fortuna di giocare in Major League».
E in campo come andava?
«All’inizio mi sentivo l’ultima ruota del carro, ero spesso nell’ultimo gruppo di lanciatori e quando salivo sul monte mi sembrava quasi di non essere seguito dagli allenatori. Però è stato tutto utile, uno stimolo ulteriore per migliorare e crescere caratterialmente».
E le amichevoli nel 2006 contro le squadre di Major?
«Un sogno, quasi un senso di onnipotenza quando si sale sul monte contro quei fenomeni. E con gli Oakland Athletics è andata anche molto bene a livello personale».
Perchè finì in America?
«Quando fui tagliato, giocai un anno in Indipendent League con poche soddisfazioni. Feci una stagione in Australia, mi vide uno scout che aveva contatti in Giappone, non avevo altro per le mani anche perché in America a 25-26 ti considerano vecchio. Ero a un bivio: tornare in Italia (Zangheri gli offrì un buon contratto, ndr) o scegliere il Giappone, conoscere un altro paese, un’altra cultura. Ho scelto il Giappone, è andata bene».
Ercolani può sfondare?
«Ho subito capito che aveva voglia di competere, non ha mai avuto timore di affrontare un livello più alto, fa tutto parte del percorso. Ora tocca a lui, l’opportunità c’è, dovrà tenere duro perché ci saranno tanti momenti difficili».
A maggio partirà anche Ettore Giulianelli, classe 2003, altro prodotto di scuola Falcons: le ricorda qualcuno?
«Ahahah sì, mi ricorda me alla sua età: deciso, convinto, meticoloso negli allenamenti, un perfezionista, sembra che abbia solo quello in testa, le caratteristiche che avevo io, anche se Ettore fisicamente è una spanna avanti rispetto a me».